Rabi’a, la madre della spiritualità islamica
Sororità e fratellanza non sono due termini astratti ma concreti nella storia della tradizione islamica: e questo si deve sicuramente anche a Rabi’a, la più famosa mistica, vissuta nell’VIII secolo, poco dopo la morte del Profeta, chiamata con il titolo d’onore ummul khayr: madre della bontà
La grande studiosa tedesca Annemarie Schimmel, che ha dedicato più di 40 anni della sua vita a studiare le lingue e la cultura islamica, nel suo libro intitolato La mia anima è una donna. Il femminile nell’islam (Genova, Edizioni Ecig, 1998) sottolinea: «Nella preistoria del sufismo la figura di maggior rilievo è quella di una donna, Rabi’a al Adawiyya che, secondo la tradizione, per prima introdusse nel sufismo rigidamente ascetico dell’VIII secolo l’elemento dell’assoluto amore divino, e l’islam le assegna un posto d’onore nella storia della mistica».
La sua dottrina d’amore è riassunta nella preghiera che canta al Signore:
«O mio Dio, tutto ciò che mi hai riservato delle cose terrene, donalo ai Tuoi nemici; e tutto quanto mi hai riservato nell’aldilà, donalo ai Tuoi amici. Perché Tu mi basti.
O mio Dio, se ti adoro per timore dell’inferno, bruciami nell’inferno, e se Ti adoro per speranza del paradiso, escludimi dal paradiso; ma, se Ti adoro unicamente per Te stesso, non mi privare della Tua bellezza eterna».
Fede come amore, amare senza altri fini.
La storia di Rabi’a insegna il cammino della profonda libertà. Una infanzia da orfana, straniera, schiava, poi liberata dal padrone colpito dalla sua spiritualità, visse a Bassora, nell’attuale Iraq, dove acquistò una gran rinomanza di santità. Predicava, si ritirò nel deserto in un eremo che divenne meta di pellegrinaggi: andavano a trovarla anche i grandi sapienti ‘ulama dell’islam. È considerata “madre del sufismo” e questo ha grande significato: il sufismo ha insistito sulla parità delle donne con gli uomini, perché nella vita spirituale non esiste diseguaglianza tra sessi. Lei canta: «Voglio versare acqua nell’inferno e dare fuoco al paradiso, affinché questi due veli scompaiano e gli esseri umani adorino Dio non per la paura dell’inferno o la speranza del paradiso, ma solo per la Sua sempiterna bellezza».
Ibn Arabi, il maestro maggiore, disse a proposito di Rabi’a: «Ella fu la sola ad analizzare e classificare le categorie dell’amore al punto da essere famosa interprete dell’amore verso Dio».
Nel 1100, cioè dopo tre secoli dalla morte di Rabi’a, al Ghazzali, il sommo teologo, riuscì a far rientrare la nozione di mahabba (amore) nell’islam “ortodosso”, tanto da intitolare uno dei suoi scritti più interessanti L’amore di Dio. Secondo una tradizione Rabi’a è sepolta nel Monte degli Ulivi a Gerusalemme.
di Shahrzad Houshmand Zadeh (L'Osservatore Romano)